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Qualcosa da leggere

Testi integrali dei racconti finalisti a concorsi letterari

Una rosa a Sarajevo

Fumava con calma, aspirando lunghe e pensierose boccate. Sul tavolino, di fronte a lui, una tazza di caffé riversava nell’ambiente una bianca colonna di calore. Era piuttosto affollato oggi il bar del museo e probabilmente aveva contribuito il fatto che fuori una tormenta stesse ricoprendo di soffice e candida neve la città di Sarajevo. Tutti quelli che avevano avuto il coraggio di avventurarsi per strada, avevano poi ripiegato in qualche luogo chiuso per difendersi dal freddo sferzante. E così il bar brulicava di chiacchiere e bevande fumanti che saturavano l’atmosfera, rendendola calda e piacevole. Era il luogo perfetto dove trascorrere questa inclemente domenica pomeriggio che si era materializzata sulla capitale bosniaca. Ai tavolini giovani coppie si scambiavano dolci effusioni, gruppi di amici ridevano sguaiatamente e lanciavano occhiate alle ragazze che, incuranti delle attenzioni, si abbandonavano a confidenze e segreti. Due anziani sposi leggevano, lui il giornale del giorno, lei un vecchio libro dalla copertina marrone e intanto si tenevano teneramente per mano. Mentre il barista e la cameriera, appoggiati alle due sponde del bancone, discutevano dei loro studi, gettando ogni tanto un’occhiata alla sala per vedere se qualcuno avesse bisogno di loro. Lui intanto seguitava a fumare e nel contempo teneva fisso lo sguardo oltre la grande vetrina che lo separava dal mondo esterno. Nella piazza imbiancata due bambini si inseguivano facendo roteare le mani prima di scagliare i loro proiettili di neve all’indirizzo dell’avversario. Una macchina avanzava lenta e insicura lungo la strada ormai completamente impiastricciata da un misto di fango e acqua. La sagoma gialla della cattedrale ortodossa si stagliava nel bianco e nero generale, come una rossa ciliegia che galleggia su un mare di panna.

D’un tratto, senza neanche accorgersene, il suo pensiero si inabissò indietro nel tempo quando in quel bar non c’era mai nessuno e la piazza coperta di neve sembrava un luogo spettrale e abbandonato. Erano i giorni dell’assedio, i giorni dell’odio razziale, i giorni della sanguinosa guerra che i Serbi avevano sferrato nel cuore dei Balcani. Come sembravano lontani adesso quei giorni. Sarajevo aveva ricominciato a vivere, a popolarsi ed era riuscita a sbarazzarsi di quegli incubi che avevano abitato tante sue notti infinite e terribili. La ferita inferta si stava lentamente cicatrizzando, anche se ancora rimavano tangibili i segni della battaglia: palazzi che sembravano forme di gruviera, immensi cimiteri di bianche lapidi ad ammantare intere colline e la sagoma ancora lacerata della Biblioteca cittadina, simbolo del trionfo della follia bellica sulla ragione. Ma quel ritorno alla vita non aveva contagiato tutti nello stesso istante: c’era ancora chi faticava a liberarsi da un fardello così pesante, chi non riusciva a cancellare dalla propria mente l’orrore di cui erano stati testimoni gli occhi. Mentre il fumo della sigaretta lo avvolgeva come una nuvola danzante, il suo pensiero lo riportò agli anni dell’università e dell’amore per Malja, dell’impegno politico e delle preoccupazioni per la tensione crescente. Era stato il periodo più bello della sua vita: le giornate erano tutte così intense fra riunioni di partito, lezioni di storia e filosofia e serate alcoliche a vagheggiare una Bosnia finalmente nazione; e poi le lunghe passeggiate con Malja, i loro discorsi appassionati, gli abbracci e quell’amore disperato e febbrile che bruciava sotto le coperte di un freddo appartamento in periferia. Tutto era difficile ma bellissimo; l’energia che riempiva la città la rendeva splendida e pulsante. Poi un giorno iniziò la guerra e il suo mondo precipitò in un baratro tetro e spaventoso. I suoi ideali, i suoi sogni si trovarono a scontrarsi con un nemico spietato, crudo ed efficiente. Un nemico che avanzava veloce attraverso il territorio bosniaco, lasciandosi dietro una terribile scia di sangue e dolore. Fino a che un giorno di inizio primavera, i primi cannoni fecero la loro comparsa sulle colline che circondano la città. Nessuno immaginava che quello sarebbe stato l’inizio di un lungo assedio, l’inizio di un incubo crudele che avrebbe spazzato via tutto: innocenza, dignità, umanità. Sin dai primi giorni, lui maturò una decisione ferma e irremovibile: mai sarebbe scappato, mai avrebbe lasciato la sua città in mano ai nemici, mai si sarebbe arreso agli invasori serbi.

Una donna avvolta in un cappotto colorato lo riportò al presente; stava camminando leggera quasi in punta di piedi in mezzo alla neve, lasciando piccole impronte sulla patina bianca ancora vergine che ricopriva il marciapiede. Aveva uno scialle marrone scuro attorno alla testa, da cui uscivano ribelli riccioli biondi. Sembrava infreddolita, le spalle chiuse su se stesse nel tentativo di proteggere il corpo dalle gelide folate che spazzavano la strada. Quando raggiunse la porta del bar, si fermò un attimo, quasi indecisa, quindi varcò l’uscio. Fu investita da una carezza di aria calda, satura di fumo e aromi, che le fece scorrere un brivido di piacere lungo tutta la colonna vertebrale.

Scrollò via la neve che le si era adagiata sul cappotto e si sfilò dal capo la grossa sciarpa di lana che le proteggeva il viso. Aveva le gote arrossate dal freddo e i capelli arruffati. Si passò le mani sul viso, come per portare via quel gelo che le si era appiccicato addosso. Quindi avanzò attraverso il locale e andò a sedersi ad un piccolo tavolino vicino alla vetrina, proprio accanto all’uomo che la stava osservando da un po’. Era una bella donna, poco più che trentenne, anche se i boccoli biondi e il sorriso dolce le davano un’aria da ragazzina. Indossava un paio di jeans chiari e un maglioncino girocollo arancione di lana grezza. Ordinò una cioccolata ed estrasse dalla borsa un pacchetto di Marlboro che posò sul tavolino, accanto al posacenere.

Quando la tazza fumante le fu davanti, accese una sigaretta e si mise a guardare fuori con un’aria vagamente malinconica. Pensava a quel ragazzo conosciuto ai tempi dell’università quando ancora alla città di Sarajevo non era stata strappata con forza l’innocenza. Quando ancora le sirene di guerra non l’avevano trasformata in un campo di battaglia bersagliato da una pioggia continua di artiglieria pesante lanciata a caso, nel mucchio, per mantenere nel terrore la sua popolazione, per fargli capire che non sarebbe stata al sicuro in nessun luogo. Se lo ricordava bene quell’assedio: la paura di camminare per strada, il freddo degli inverni senza riscaldamento, la fame di lunghe giornate senza cibo né acqua. E soprattutto la costante presenza della morte che aleggiava ovunque nera e minacciosa, come un avvoltoio che aspetta la fine di chi sta perdendo forze e speranza. Aveva cercato di resistere, di combattere le avversità senza perdersi d’animo mai. Poi un giorno aveva preso una decisione: sarebbe scappata, fuggita lontano da quell’orrore, da quella non vita che aveva trasformato Sarajevo in una città fantasma. Aveva anche provato a convincere quel ragazzo dall’aria sognante e dalla barba sempre lunga che quella fosse la soluzione migliore, che dovevano andare a cercare il loro futuro altrove, che Sarajevo era ormai perduta. Ma lui non aveva voluto sentire ragioni, fermo nel proposito di difendere la città fino alla fine. L’ultima notte trascorsa insieme non era riuscita a chiudere occhio. Sentiva il suo respiro pesante nelle orecchie mentre lui la cingeva da dietro, la sua pancia che si alzava e abbassava sfiorando la schiena di lei. Voleva imprimerselo bene nella memoria, quel respiro calmo e continuo che significava vita. Quella vita che ogni giorno avrebbe rischiato di essere spazzata via nella roulette russa di Sarajevo.

La mattina dopo non aveva voluto vederlo per non rischiare di cambiare idea, di restare al fianco di quell’uomo coraggioso e incosciente che amava così tanto. Ma la sua famiglia aveva bisogno di lei, la madre era malata e il vecchio padre non poteva accudirla da solo. Camminarono tutti stretti, radenti ai palazzi e poi di corsa come pazzi attraverso gli incroci che significavano essere allo scoperto, sotto la mira di tiratori scelti, che li osservavano dall’alto pronti a decidere la loro sorte. Percorsero tutta la famigerata via dei cecchini e riuscirono a raggiungere la radura dove mimetizzarsi un po’ fra le sterpaglie e trovare rocce dietro cui tirare il fiato. Ci misero quasi l’intera giornata per arrivare al tunnel scavato sotto l’aeroporto internazionale, il tunnel che significava territori bosniaci liberi, il tunnel che portava alla salvezza. Aspettarono circa mezzora prima di poter scendere e percorrere in silenzio, quasi in apnea, il lungo e scuro cunicolo per poi sbucare fuori dall’altra parte dopo circa cinque minuti e respirare da subito un’aria diversa, non più chiusa e viziata, ma fresca e libera. Era fuggita lontano, in Spagna, dove aveva trovato lavoro e cominciato una nuova vita. Ma quel bell’universitario era sempre in cima ai suoi pensieri. La guerra fu dura e cruenta, poi finì lasciandosi dietro una spaventosa scia di macerie. Da Sarajevo però non ricevette nessuna notizia per molto tempo. Aspirò una lunga boccata dalla sua Marlboro mentre una piccola e solitaria lacrima le rigò velocemente la guancia, sparendo assorbita dal maglione. Veniva spesso con lui in quel bar, perché era caldo e famigliare. A lui piaceva sedersi sempre ai tavolini lungo la vetrina, per poter vedere fuori, per poter avere sempre il mondo sotto controllo. E mentre le birre si succedevano velocemente, prendevano vita le loro accese conversazioni sulla situazione politica, il futuro incerto e la forza del loro stare insieme.

Da quando, dopo anni di lontananza, aveva deciso di tornare a vivere a Sarajevo, la ragazza tornava di frequente nel loro bar, proprio come aveva fatto oggi nonostante la violenta tempesta consigliasse di starsene in casa. Bevve un sorso di cioccolata e volse uno sguardo malinconico verso la sedia vuota accanto alla sua. L’uomo seduto accanto a lei la fissò intensamente per qualche interminabile secondo, poi si alzò, uscì dal locale e svanì nella tormenta. Malja finì la sua bevanda, pagò il conto e tornò ad imbardarsi per bene, per proteggersi dal freddo che di lì a poco l’avrebbe investita.

Mentre camminava sotto la neve, che le sbatteva in faccia violenta sospinta da un vento ostinato, pensò a quanto era bella Sarajevo prima di perdere la sua innocenza, quanto era bella quando lui le era sempre accanto, prima che tutto quanto c’era di bello svanisse all’improvviso, prima che lui morisse una mattina, al mercato, per una granata buttata giù, nel mucchio.            

"Una rosa a Sarajevo" non è stato finalista alla III Edizione del Premio Letterario Percorsi letterari... "dal golfo dei poeti Shelley e Byron alla Val di Vara" - 2016, ma a causa di un equivoco con l'editore è stato pubblicato nell'antologia: AA.VV. "Percorsi letterari... Dal Golfo dei Poeti Shelley e Byron, alla Val di Vara", GD Edizioni - 2016

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