Qualcosa da leggere
Testi integrali dei racconti finalisti a concorsi letterari
Il mio amico Tonino
Tonino è un ragazzo un po’ strano. E’ quasi un’ora che lo aspetto al solito posto e, nonostante il pesante ritardo che potrebbe scoraggiare anche il meno rinunciatario dei postulanti, so che prima o poi arriverà, calmo e serafico, come un’anima pura che non ha nulla da farsi perdonare. Lui è fatto così, prendere o lasciare. Difatti penso di essere l’unico vero amico che ha, l’unico capace di accettarne l’eccentrica inclinazione. E non parliamo solo di questa sua cronica incapacità di rispettare un appuntamento, di appuntarsi nella testa un orario e fare di tutto per onorare tempo e luogo pattuiti. Assolutamente no: questa si potrebbe definire solo la punta dell’iceberg di una personalità obliqua e spiazzante, imperturbabile e anarchica alle più banali regole sociali. Perché Tonino è un ragazzo senza filtri, deve sempre dire quello che pensa e non solo non riesce a trattenersi dal dirlo, ma non possiede proprio il discernimento mentale che ci fa soppesare la convenienza di un’affermazione in un determinato contesto. Lui no, lui inizia a parlare e non fa nient’altro che tradurre in parole quello che i suoi pensieri materializzano. Insomma, in certi casi Tonino è una vera e propria bomba a orologeria. La sua schiettezza non gli ha regalato una gran fama di fronte agli altri e questo l’ha portato ad un’esistenza piuttosto solitaria e compassata. Ma non sembra provare dolore per questo, o almeno io non ho mai scorto in lui nessuna vena malinconica, nessun accenno di tristezza. Ogni tanto lo osservo, cerco di carpirne emozioni e stati d’animo, e quello che mi ritorna indietro è sempre un’impalpabile e benevola calma, che potrebbe sembrare ingenuo distacco dal mondo reale. E invece non è così. Perché Tonino è anche un ragazzo molto attento a quello che lo circonda: la sua memoria è prodigiosa, ricorda ogni cosa, ogni data, ogni faccia, ogni nome. Tutto ciò che viene incamerato nel suo cervello, è sottoposto ad un’attenta attività di catalogazione, in modo tale da essere subito rintracciabile e disponibile, non appena sia necessario. Quell’enorme database sempre a portata di mano e in continuo aggiornamento, quella collezione infinita di informazioni e ricordi, gli ha sempre spianato la vita scolastica, rendendo ancora più complicata la vita comunitaria. Questo è Tonino: un genio senza peli sulla lingua e senza amici. Tranne me, naturalmente.
Io l’ho conosciuto alle scuole superiori. Non avevo assolutamente idea di chi fosse quel ragazzo secco come un chiodo, con grossi occhiali neri sulla faccia e un incedere decisamente buffo. Quella è stata la prima cosa che ho notato di lui: quel goffo modo di camminare, dondolando col busto da una gamba all’altra, a seconda di quale delle due si facesse sostegno dell’intero corpo. Qualche giorno dopo avrei avuto il primo vero contatto con questo alieno e avrei iniziato a scoprire chi mi stava davanti. Avvenne tutto durante la ricreazione. Un gruppetto di ragazzi si era radunato in fondo alla classe e fra di loro c’ero anch’io e c’era anche Tonino. Un ragazzo biondo, con un grosso ciuffo sulla faccia e un’espressione da piacione, stava facendo lo scemo davanti a tre ragazze compiacenti, quando se ne uscì con la seguente esternazione: “La prof di matematica non capisce un cazzo: mi ha messo quattro nel compito di ingresso!”. La sua bocca non fece in tempo a richiudersi su quell’annucio che una vocina stridula e petulante s’intromise all’istante: “Se hai preso quattro, forse sei tu che non capisci un cazzo”. Una serie di occhi esterrefatti si spostò dalle labbra del biondino, da cui pendevano fino a un momento prima, alla faccia smilza di un ragazzino occhialuto dall’espressione convinta. Era la faccia di Tonino, la cui voce aveva eruttato una frase che la bocca non aveva filtrato come sarebbe stato suo dovere, perché ogni parola va valutata attentamente prima di essere pronunciata, perché una parola detta non può più tornare indietro. E questo vale anche se quello che si proferisce corrisponde al vero, perché potrebbe non essere gradito a chi ne subisce l’effetto. Quindi, onde evitare guai, meglio sempre tacere oppure farsi guidare dall’utile arte della diplomazia. Questo è il metro di giudizio che tutti i genitori insegnano ai loro figli, ma lo stesso non vale certo per Tonino. Intanto il biondino aveva accusato il colpo, stava diventando paonazzo dalla rabbia, ma questo sembrava non spaventare il piccolo sfrontato che restava lì a fissarlo con la stessa espressione di prima. In effetti la mancanza di paura è uno degli altri strani aspetti di questo bizzarro personaggio, apparso quel giorno nel mio universo. Dice quello che pensa e non ne teme le conseguenze. Quante volte l’ho riaccompagnato a casa con il naso che sanguina, dopo l’ennesimo pugno in faccia di chi non gradisce le sue schiette esternazioni. Anche in quella prima occasione ne venne fuori una zuffa e i due alunni furono portati dal preside: il biondino fu severamente redarguito, Tonino fu sospeso per un mese. E nella mia testa è sempre rimasto inchiodato un interrogativo: le aveva più che altro prese, era minuto e tutto stroppicciato, e allora… chissà cosa era arrivato a dire al preside?
Quella fu la prima di una lunga serie di provvedimenti disciplinari cui Tonino fu sottoposto. La maggior parte arrivarono il primo anno: quando corresse l’insegnante di storia per una data sbagliata, quando disse al professore di filosofia che di filosofia non capiva niente, quando consigliò ad una nostra compagna di cambiare istituto e cercarsi una scuola più facile. Questi sono solo alcuni esempi della sua candida franchezza, che non aveva nulla di cattivo, se fosse rimasta sotto forma di pensiero: è una cosa naturale pensare le peggio cose, poi basta non dirle e non sono mai esistite. Ma quando il pensiero si fa azione senza nessun discernimento intermedio, allora il peso di quello che si dice arriva a colpire come un macigno l’interlocutore che, ritrovandosi ferito, si difende come può dall’inaspettato attacco. Con il passare del tempo tutti avevano iniziato a conoscere com’era fatto quello strano ragazzo, ma non di meno lo temevano: compagni di classe e professori, tutti all’erta per non incappare in Tonino. E così fondamentalmente tutti lo evitavano.
Tutti tranne io, che ero rimasto affascinato da questa personalità così primordiale ed evoluta al tempo stesso. Non che con me fosse diverso dagli altri, lui era sempre lui, con tutti. Ma a me non importava sapere cosa pensasse di me, anzi mi piaceva sapere che il suo parere su quanto dicessi e facessi era schietto e trasparente, mi piaceva conoscere una persona che mi elogiava e mi criticava, sempre nella più totale sincerità. E così cominciammo a fare coppia fissa, io e Tonino, e più stavo con lui più riuscivo a notare la falsa cordialità e la cattiveria gratuita degli altri, più stavo con lui più mi allontanavo da quella commedia imbrigliata che è la vita degli uomini. Come lui non sono mai diventato e questo è logico, ci sono troppi freni inibitori da slegare per arrivare a un tale stato di assoluta e noncurante purezza. Ciò nonostante, in sua compagnia sono sicuramente diventato una persona migliore, ancora con ampi margini di progresso, ma capace di essere in ogni occasione coerente con sé stessa.
Ed eccolo là in fondo che arriva, allegro e svagato come al solito, l’andatura ciondolante a definirne immediatamente la presenza, anche da molto lontano. Sono le dieci e un quarto del mattino, si presenta soltanto con un’ora e mezza di ritardo, chissà cos’avrà da dirmi in sua difesa. Lo saluto e aspetto. Lui mi guarda con aria distratta e poi mi dice una semplice frase: “Ti sta crescendo un brufolo sul naso”. Questa e poi subito dopo un’altra: “Dai andiamo, che è tardi”. Bella scoperta che è tardi, se tu fossi arrivato in orario non lo sarebbe, penso dentro di me, ma non lo dico, dopotutto non sono mica Tonino io. E allora mi metto in marcia in silenzio, tanto ormai sono abituato, inutile cercare di discutere con lui, perché un’altra delle sue astruse caratteristiche è l’impossibilità di litigarci: anche se gridi, se alzi la voce, lui non si smuove di un centimetro, rimane calmo, con la sola conseguenza di farti innervosire sempre di più, senza cavare un ragno dal buco. Camminiamo fianco a fianco, in silenzio, per le vie affollate che vanno verso il centro, verso l’antica università dove trascorreremo l’intera giornata a studiare. Dopo aver concluso insieme il liceo, anche grazie alla sua infinita pazienza nell’aiutarmi a studiare cose che per lui erano solo un divertente esercizio mnemonico, ci eravamo iscritti entrambi alla facoltà di matematica, l’unica che Tonino ritenesse interessante per via, diceva lui, dell’imprevedibilità insita nei numeri. Cosa ci trovasse di imprevedibile in formule, teoremi e rigorosa disciplina di calcolo, non l’ho mai capito e non ho nemmeno cercato di farlo, che la spiegazione sarebbe stata troppo astrusa e difficile da seguire.
“Ti vanno un cappuccino e una brioches, prima di tuffarci nello studio matto e disperatissmo?” mi chiede all’improvviso. E se me lo chiede, vuol dire che a lui vanno sicuramente, non è uno da inutili convenevoli il mio amico. E allora entriamo al solito bar sulla piazza del Duomo, ci sediamo al solito tavolo, perché Tonino è anche un abitudinario seriale, e ordiniamo la nostra colazione preferita, a base di schiuma e ripieno di nutella. Il bar è piuttosto affollato, c’è un viavai continuo di persone che entrano, prendono il caffè, pagano, salutano e poi ritornano ai loro affari. Proprio accanto al nostro tavolo, appoggiato su un lato ad una larga vetrata che si affaccia sul palcoscenico cittadino, stanno invece tre uomini con i capelli bianchi, pensionati che si passano il tempo a discutere di massimi sistemi e bere biancamari. Non è la prima volta che li vediamo in questo bar, devono essere degli habitué come noi, ma è la prima volta che ci ritroviamo così vicini, tanto che le loro chiacchiere entrano prepotenti nel nostro silenzioso campo uditivo. Stanno parlando del loro passato e in particolare di un avventuroso viaggio in Jugoslavia ai tempi della cortina di ferro. Per la verità a parlare sono soltanto due mentre il terzo, un ometto piuttosto basso e con una pancia infinitamente rotonda, posata su due esili gambette che non si capisce come facciano a reggere quel peso mal distribuito, li ascolta accigliato. Sembra nervoso, ma è soltanto concentrato sulla discussione, alla ricerca dello spiraglio giusto per potersi intromettere. Si vede che è uno specialista dell’inserimento perché passa poco che, da una parola buttata lì per caso da uno dei due compagni, riesce a creare un favoloso diversivo, ammutolendo gli altri due e riversando su di loro un lungo aneddoto piuttosto noioso riguardante il suo lavoro. La cosa lascia piuttosto indifferente me, che sto viaggiando lontano dentro i miei pensieri e poco mi sto curando di quanto accade intorno, ma non Tonino. Il quale all’improvviso si alza e rivolgendosi all’omino grasso con la consueta vocetta petulante, gli rivolge il seguente appunto: “Il viaggio in Jugoslavia era molto più interessante del suo monotono mondo lavorativo”. E fin qui si potrebbe pure accettare, è solo un giudizio sui due livelli di narrazione che ci erano stati involontariamente proposti. Ma poi rincara la dose: “Lei deve essere una di quelle persone tristi, che non ha mai combinato niente di bello nella vita e cerca di sottoporre agli altri la sua mesta commedia, per evitare di ascoltare racconti pieni di passione ed emozione”. A questo punto è troppo. L’omino diventa isterico e comincia a biascicare ogni sorta di improperi verso quel ragazzino maleducato e impertinente, che si permette di rivolgersi in tal maniera a un uomo con la sua età ed esperienza. Quando minaccia di tirargli un pugno, capisco che è il momento di intervenire: mi alzo in piedi, acchiappo Tonino per un braccio, lancio i soldi della colazione alla cameriera e poi via fuori dal locale, a correre a perdifiato attraverso la piazza in una lunga diagonale che ci porta infine al Corso, dove finalmente possiamo tirare il fiato. Dovrei essere arrabbiato, perchè si è ficcato per l’ennesima volta in una brutta situazione e invece lo guardo in faccia e scoppio in una grossa risata liberatoria. Con Tonino non si corre certo il rischio di annoiarsi.
Fortunatamente nella biblioteca universitaria non c’è quasi nessuno e possiamo ritagliarci uno spazio tutto nostro, lontano da ogni distrazione e possibile pericolo. Ci sistemiamo in un bel tavolo di legno scuro, poco distante da un ampio lampadario che scende dall’alto soffitto attraverso un lungo cavo d’argento intrecciato: attorno a noi pareti di vecchi tomi ci spiano minacciose e ci invitano allo studio. Tiro fuori dallo zaino il libro di algebra, l’astuccio con le penne, il quaderno, la calcolatrice e sono pronto ad iniziare: la matematica è servita, vediamo quanti esercizi mi vengono oggi. Tonino invece estrae dalla tasca un foglio bianco ripiegato, lo apre con cura, e poi fruga nel mio astuccio fino a trovare una bella matita con la punta perfettamente temperata. Quindi si guarda in giro, trova il suo soggetto e inizia a disegnare. Ogni giorno fa sempre così: prima trascorre qualche ora a riprodurre sul suo foglietto stropicciato la realtà, poi mangia il suo panino col salame, beve a piccoli sorsi la spremuta di arance e solo allora è pronto per iniziare il suo viaggio nei numeri. In meno di mezz’ora ha già finito tutti gli esercizi su cui io sto penando e che non riesco a capire, e a quel punto, prima di dedicarsi al ruolo di mio insegnante di sostegno, trascorre circa un’oretta a scarabocchiare limiti, derivate e integrali dentro uno spesso quaderno a quadretti con la copertina scolorita. Cosa scriva là dentro per me è un mistero, ma il mio intuito mi dice che molto presto tutti gli studenti del mondo si ritroveranno a che fare con il teorema di Tonino. Comunque le nostre giornate di studio trascorrono più o meno così, fino circa alle sei di sera, quando esausti abdichiamo ai libri e all’aria ferma e stantia di quel sacrario del sapere.
Fuori è una bella serata piena di stelle. Siamo a novembre inoltrato, ma quest’anno il freddo sembra proprio non voler arrivare, tanto la tempertura è mite e lo stare all’aperto ancora una piacevole consuetudine. Non ho voglia di andare già a casa e allora propongo al mio amico di farci un aperitivo. Tonino accoglie l’invito con entusiasmo e ci ritroviamo seduti fra i disordinati tavoli di una birreria, sparsi su una piazza il cui perimetro è contornato da begli edifici in mattoni rossi e da una massiccia chiesa gotica dello stesso materiale. Ordiniamo due pinte e con loro arrivano tanti vassoietti colorati, traboccanti ogni genere di stuzzichino. Intanto il locale si anima e quasi ogni tavolo adesso è occupato da gruppetti di giovani: il loro vociare si spande frenetico e riempie la piazza di una caotica allegria. Tonino e io parliamo a lungo, di un po’ di tutto, dopo una giornata con le teste a cuocere abbiamo bisogno di sfogarci. Quando arriva la seconda pinta però, la mia vescica inizia a dare segnali di cedimento: meglio correre in bagno e darle soddisfazione.
Al mio ritorno, Tonino non c’è più. Un po’ preoccupato mi guardo in giro e quasi subito lo scorgo: è seduto al tavolo con altri ragazzi più grandi, probabilmente sulla trentina, due maschi e due femmine, quasi certamente due coppie. Mi avvicino a loro e noto che stanno discorrendo amabilmente di musica e Tonino fa la sua parte nel coro di voci. Mi presenta agli altri e mi siedo con loro, ma resto in disparte piuttosto teso, perché uno dei ragazzi lo conosco: è un bulletto pieno di sé, di quelli che si credono infallibili, anche se in realtà non ne azzeccano granchè. Ma vaglielo a dire a un tipo irritabile come quello che sta sparando una marea di idiozie, nessuno avrebbe il coraggio di farlo. No, uno c’è: ti prego Tonino stai bravo, cerca di trattenerti, dai è tardi, paghiamo e andiamo, a casa ci stanno aspettando per cena. Ma niente, non riesco ad attirare la sua attenzione e intanto il discorso sta virando pericolosamente verso il campo minato dell’attualità. Quando il bulletto se ne esce bello fiero con la seguente affermazione: “In Svezia non sono scemi come noi, loro non li vogliono gli stranieri”, un brivido ghiacciato mi corre lungo la schiena. La risposta di Tonino non si fa attendere ed è uno sfoggio violento e nozionistico di numeri e statistiche, per affermare come in Svezia la percentuale di immigrati presenti sia maggiore che qui in Italia, che il loro livello di vita sia più alto, e la loro integrazione migliore. Un profluvio di parole e ragionamenti per confutare le affermazioni azzardate e senza fondamento del bulletto, che riceve quella sonora scarica di parole pesanti immobile, incredulo, a bocca aperta. Poi d’un tratto cala il silenzio, ed è un silenzio carico di tensione. Per tutti tranne che per Tonino, che se ne sta tranquillo sulla sua sedia a fissare l’essere umano che ha appena ridicolizzato.
Il primo a muoversi sono io, ma stavolta non faccio in tempo a tirare fuori il mio amico dalla mischia. L’altro ragazzo mi si butta addosso e mi blocca in disparte, mentre il bulletto sfoga tutta la sua rabbia sul povero Tonino. Stavolta l’ha fatta grossa, stavolta si è scelto un avversario fuori portata. Fortunatamente arrivano quasi subito i propriatari della birreria, due grossi omoni dall’aspetto molto bavarese, grandi pance e barbe folte, che riescono a separare i due contendenti. Il bulletto viene allontanato dal locale, mentre Tonino giace a terra privo di sensi e viene raggiunto da una cameriera che, accortasi della mancanza di risposte, si attacca immediatamente al cellulare per attivare i soccorsi. Anche io mi avvicino al mio amico e quello che vedo mi lascia senza fiato: è immobile, la faccia una maschera di sangue, gli occhiali rotti poggiati sulla fronte, i capelli neri sparpagliati sul selciato. Mi lancio su di lui e comincio a chiamarlo, ma niente, nessuna risposta, nessuna voce petulante a tranquillizzarmi. L’ambulanza arriva, gli infermieri si gettano su Tonino, lo medicano, lo bloccano su una barella, gli danno ossigeno. Poi lo caricano e io chiedo di poterlo accompagnare. Non vorrebbero, ma io insisto e non c’è tempo da perdere e allora mi fanno salire, chiudono le porte e via, a forte velocità attraverso le vie tortuose del centro cittadino. Mi siedo accanto a Tonino che sballonzola inerme ai bruschi cambi di direzione del mezzo. Gli prendo la mano e lo osservo attentamente: ha un respiro piuttosto regolare e la faccia, debitamente medicata, non è più così spaventosa, solo qualche taglio e un paio di lividi. All’improvviso noto come un leggero movimento degli occhi, che si strizzano più volte, in uno strano spasmo. Poi si placano e piano piano si schiudono, con la lentezza di una rosa che apre la sua corolla di petali al sole. Quando sono ben spalancati, cominciano a guardarsi in giro e dopo poco mi scorgono. Tonino mi sorride, porta una mano alla bocca e scosta leggermente la mascherina dell’ossigeno. Poi mi sussurra alcune parole: “Mamma mia, come guida male questo!”.
Il mio amico Tonino è stato finalista alla V Edizione del Premio Letterario Bukowski - 2018
Pubblicato nell'antologia: AA.VV. "Bukowski. Inediti di ordinaria follia", Giovane Holden Edizioni - 2018
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