top of page

Qualcosa da leggere

Testi integrali dei racconti finalisti a concorsi letterari

Granelli di vita

“Adesso voglio che resti immobile, come una statua di sale. E voglio che ascolti attentamente quello che sto per raccontarti” ordinò il vecchio, scandendo bene le parole per evitare spiacevoli fraintendimenti. Indossava un paio di pantaloncini beige che gli arrivavano al ginocchio, sandali marrone scuro e una camicia a fiori, sui toni del blu. Abbigliamento che poco si confaceva alla pistola lucente che stringeva nella mano destra, e la cui bocca rotonda si spalancava sulla faccia di un giovane uomo. Questi, inginocchiato su un terreno sabbioso, teneva gli occhi bassi e ascoltava in silenzio il suono lontano di un televisore, che raccontava una partita di calcio. Vestiva jeans strappati, una t-shirt bianca e scarpe da ginnastica logore e polverose. Tra i due c’erano diverse generazioni di mezzo, perché i capelli di quello in piedi erano di un bianco argentato che tradiva molte primavere, mentre l’altro aveva una pelle soffice, quasi da bambino, su cui iniziavano a spuntare i primi sparuti peli di barba. Un abisso generazionale separato da un’arma, che metteva quello che aveva meno anni davanti nella posizione di poter confutare il normale corso della vita umana.

“Voglio raccontarti una storia. La mia storia” riattaccò il vecchio, non spostando di un centimetro i suoi occhi piccoli e velonosi dal prigioniero. “Sono nato molto lontano da qui, a Cracovia, in Polonia, più di novant’anni fa. La mia famiglia stava piuttosto bene e ho trascorso un’infanzia felice e spensierata: la scuola, gli amici, le partite di pallone in strada, insomma, una vita normale. Poi tutto è cambiato, da un giorno all’altro. Sono arrivati i tedeschi e ci hanno chiuso dentro una prigione a cielo aperto, spesse mura a circondarci da ogni lato. Lo chiamavano ghetto ed era un privilegio che spettava solo a quelli della nostra razza. Ci hanno portato via tutto, ridotto in miseria e poi, piano piano, hanno iniziato a far sparire la gente. Rastrellamenti li definivano, ed altro non erano che sradicamenti di esseri umani dalle loro abitazioni, dalle loro vite, dalla loro dignità. L’ho scoperto sulla mia pelle quando mi hanno messo su un treno piombato che puzzava di piscio e sudore, e trasportato come una bestia diritto all’inferno. Sto parlando dei campi di concentramento, ragazzo, ma forse è meglio chiamarli con il loro vero nome: campi di sterminio. Lì, sotto i miei occhi, sono state annientate decine di migliaia di ebrei, forse anche di più, ho perso il conto”. E qui il vecchio si fermò un attimo, come se stesse cercando di recuperare la cifra esatta con un rapido calcolo mentale. Quindi riprese il filo del discorso. “Il mio turno non arrivava mai, anche perché ero giovane e conservavo ancora un po’ di quella forza che normalmente si possiede quando si è adolescenti fatti. Mangiavamo poco e male, e sgobbavamo come bestie per tutto il giorno. Non è facile sollevare chili di ferro dal mattino alla sera, quando si è denutriti, dimagriti a tal punto che la pelle aderisce alle ossa così tanto, da tramutarci in un esercito di scheletri in marcia. Ma io resistevo, lavoravo e mi mantenevo in vita, stavo zitto ed eseguivo tutto quello che mi ordinavano di fare”. Il vecchio si bloccò una seconda volta, perso come prima nel doloroso passato che stava rievocando. Il ragazzo in ginocchio rimaneva in silenzio, i muscoli tesi in una immobilità innaturale, proprio come quella di una statua di sale.

La tregua durò qualche secondo, giusto il tempo per captare la voce eccitata di un cronista descrivere il favoloso gol che aveva sbloccato la sfida, poi colui che aveva monopolizzato il dialogo, riprese la parola. “Ma basta divagare adesso, arriviamo al punto. È successo un giorno come tanti, non so per quale ragione, fatto sta che, al termine di una giornata fredda e faticosa, stanco ed esasperato dai continui soprusi, ho cercato di fuggire. Ho provato la fuga nel tragitto che ci riportava al campo, cercando di sfruttare la bassa foschia che danzava sull’erba irrigidita dal gelo. Mi sono messo a correre, come un disperato, senza neanche sapere dove andare. Ma non ho avuto fortuna. Una guardia mi ha notato quasi subito e ci ha messo poco a raggiungermi: il mio incedere stremato era un continuo e buffo incespicare su ostacoli invisibili. In un attimo un violento colpo alla schiena trasformava il mio tentativo di evasione in un pesante ruzzolone sopra il terreno rappreso dai rigori invernali. Mi sono ritrovato in ginocchio. Davanti a me, un boia dagli occhi di ghiaccio brandiva il suo fucile, puntandomi addosso quello scuro mostro pronto a fare fuoco. Sono stati gli istanti più lunghi della mia vita, ma non avevo paura di morire. Nossignore, nessuna paura, tanto che i miei occhi scuri si sono piantati dentro quelli chiarissimi che avevo dinanzi, saettando fuori un odio terribile, un disprezzo assoluto. Se mi avesse sparato, almeno poneva fine alle mie sofferenze, a quella vita che non era più una vita. Non avevo nulla da perdere. E ho vinto, perché quel meschino non ha avuto il coraggio di premere il grilletto, si è limitato a tramortirmi con il calcio del fucile, regalandomi alcuni giorni di riposo in infermeria”.

A quella frase, il vecchio si concesse una lunga pausa, per permettere alle parole appena pronunciate di radicarsi per bene nella testa di chi era costretto ad ascoltarle. Poi concluse il suo sermone: “So benissimo quello che provi, con una pistola puntata in faccia. Ma non sai niente della vera sofferenza, tu, ladruncolo da due soldi, che vieni a rubare in casa mia, che profani la terra che mi sono guadagnato dopo anni di privazioni e umiliazioni continue”. Colpito nel vivo dalle ultime affermazioni, il ragazzo in ginocchio finalmente interruppe il monologo e con voce densa di rancore sbuffò fuori: “Questa è la mia terra”.  Il vecchio rimase folgorato dall’inaspettata presa di posizione, da quella rivendicazione che osava contraddire la chiosa su cui si sorreggeva tutta la sua storia. “Come osi – attaccò cupo e marziale – ridicolizzare la mia sofferenza, quella del mio popolo e quanto ci spetta di diritto”. Il giovane, continuando a mantenere il suo sguardo ben piantato sul terreno arido e riarso dal sole, non si fece intimorire e tornò a controbattere: “Tu parli di popolo, dolore, ricompensa, ma non vedi al di là del tuo naso”. Stavolta l’uomo in piedi non trovò una risposta altrettanto rapida ed efficace, e il suo tacere fu preso dall’altro come un segno di debolezza: forse qualcosa si era incrinato ed era il momento di infilarsi dentro quella fessura, per farla camminare, corroderla dall’interno e portarla ad una brusca capitolazione.

“Sono nato meno di vent’anni fa – esordì il ragazzo, sempre con una pistola spalancata sulla faccia – non troppo lontando da qui, in un piccolo villaggio di terra e fango, circondato soltanto da pietre, sabbia e deserto. Eravamo poveri, mio padre s’inventava ogni giorno un nuovo mestiere, per mantenere mia madre e i mie tre fratelli. E nonostante tutto, ricordo quel tempo quasi come un’età dell’oro, forse ero troppo piccolo per capire il mondo che mi circondava, ma gli unici sprazzi di vera felicità della mia vita risalgono a quei giorni ormai lontani. Poi tutto è cambiato, e questo lo ricordo bene. C’è stata una guerra e alla fine dei combattimenti ci siamo ritrovati prigionieri nella nostra terra, reclusi senza libertà di movimento dentro il campo di concentramento a cielo aperto più grosso del mondo. Non so se ho capito subito la situazione, probabilmente no, ma non ci ho messo molto a comprendere che eravamo tutti topi in trappola. La situazione degenerava rapidamente: il cibo scarseggiava, il lavoro anche, e solo la rabbia cresceva indisturbata. Esplodeva a ondate irregolari, spinta dalla disperazione di un presente di miseria e dalla frustrazione di non avere un futuro. Mentre con la fionda lanciavo pietre contro mostri di lamiera impossibili da scalfire, ho visto morire due dei miei fratelli, sotto i colpi subdoli e vigliacchi di cecchini invisibili. L’ultimo invece se l’è portato via una retata, trasferito in un altro carcere, con muri più stretti ed opprimenti, spesse sbarre alle finestre, ma vita del tutto identica a quella di prima, a quella di tutti noi”. Dopo aver parlato quasi senza tirare il fiato, il ragazzo si fermò: era il suo momento adesso di commemorare i suoi morti e restituirgli esistenza attraverso la memoria. Il vecchio invece sembrava impietrito, il volto pallido e sudato, le palle degli occhi lucide, disperse dentro un pozzo nero.

Con le mani poggiate sulle ginocchia, che si stringevano nervosamente alla stoffa ruvida dei pantaloni, il giovane riprese a parlare con la voce soffocata da una collera latente. “Per salvarmi, per salvare almeno me, i miei genitori sono riusciti a farmi evadere legalmente. Non so quanti soldi abbiano sborsato, quali azioni siano stati costretti a fare, per procurarmi i documenti necessari a raggiungere i miei zii, che vivevano fuori dall’inferno. Io ho protestato, volevo restare con loro, non volevo scappare via. Solo dopo mesi di estenuante immobilità, preghiere continue, sono riusciti a convincermi, e mentre promettevo loro che sarei tornato presto a salvarli, le mie parole suonavano come un addio dentro le nostre orecchie. I miei zii, che non avevo mai visto prima, mi hanno accolto come un figlio nella loro casa, un piccolo appartamento di tre stanze in cui stavamo in sei: io, loro e i tre figli che avevano avuto. Erano ancora piccoli, innocenti, e vederli mi faceva sentire già vecchio: quindici anni e già tanta sofferenza a circolarmi dentro al sangue. Per un po’ le cose sono andate normalmente, per quel che può significare questa parola, poi ancora una volta qualcun altro si è preso la briga di decidere il nostro destino. Ci hanno cacciato dalla nostra casa, abbattuta per fare posto ad edifici nuovi di zecca, e ci hanno spinto ai margini della nostra terra, in un campo profughi, dentro una tenda dove si gela d’inverno e si scoppia di caldo d’estate”.

Ne seguì un prolungato silenzio, in cui i due rimasero rintanati dentro i rispettivi pensieri, immobili sotto il sole cocente, che imperlava i loro corpi di piccole gocce di sudore. Fu il ragazzo a spezzare di nuovo l’immobilità, e lo fece con una frase schioccata come un dardo, pronunciata a denti serrati: “La mia casa stava qui, proprio dove adesso c’è la tua”. A quelle parole, il vecchio riprese fiato e colore, come se la severa arringa non l’avesse nemmeno sfiorato e riconoscesse solo adesso una palese accusa alla sua condotta. “Come ti permetti, delinquente, ad accusarmi della tua miseria!” proruppe fuori in tono indignato. Il corpo del giovane fu attraversato da un sussulto che solo con difficoltà riuscì a reprimere, trasformandolo in una non meno violenta invettiva: “Non solo chi prende le decisioni è colpevole, ma anche chi quelle decisioni avvalla, chi le segue, chi le mette in pratica. Nessuno si può dire assolto, se non combatte per cambiare le cose”. E, terminato di parlare, alzò finalmente la testa, andando a piantare due occhi pieni di odio e disprezzo dentro quelli del vecchio. L’odio di chi ha patito troppe sofferenze, il disprezzo di chi non ha più una vita e non ha nulla da perdere. Di fronte a quello sguardo, l’uomo con la pistola distolse il volto, incapace di sostenere quel manifesto atto d’accusa. Uno spasmo nervoso si diffuse ai suoi muscoli, come un riflesso condizionato dal vicolo cieco in cui era finito.

Un boato secco, poltiglia che si schianta contro un muro, un tonfo sordo sul terreno, si susseguirono in un battito d’ali di farfalla. Poi fu solo silenzio.

Granelli di vita è stato finalista alla XII Edizione del Premio Letterario Giovane Holden - 2018

Pubblicato nell'antologia: AA.VV. "I giovani di Holden", Giovane Holden Edizioni - 2018

Se "Granelli di vita" ti è piaciuto e hai voglia di leggere di più, scopri come acquistare la mia raccolta di racconti:

holden 2018.jpg
bottom of page